Algebre orecchiabili

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Mi guadagnai le prime vacanze da studente dando ripetizioni di matematica, fisica e chimica. Avevo dovuto superare i due esami di analisi matematica, alla facoltà di ingegneria de “La Sapienza”. Ricordo distintamente gli istanti iniziali della prima lezione di “analisi uno”, tenuti dall’ottimo professor Rosati. Volse le spalle ai suoi nuovi quattrocento allievi. Stretto nella mano affusolata da intellettuale, avvicinò il gessetto allo spigolo superiore sinistro dell’immensa lavagna di ardesia. Con voce in po’ cantilenante, piena di paterna consapevolezza, scandì l’inizio della serie dei numeri naturali che intanto scriveva: “zero, uno, due, tre, quattro, …”. Poi si volse verso di noi, freschi di diploma, e ci disse, senza riprovazione, ma scandendo bene le parole: “Voi non sapete niente. Adesso ricominceremo tutto da capo.”

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Il femminismo è nelle parole?

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La questione della garanzia della parità di genere è in grande auge in molte aziende italiane. Ormai alcune di esse cercano di ottenere un riconoscimento ufficiale della propria imparzialità, anche se non mi è chiaro chi abbia l’autorità necessaria a conferire un tale brevetto e in base a quali parametri oggettivi.

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La violenza delle buone maniere

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Boy Helping Girl Cross The Fence

Nella comunicazione, in particolare quella pubblica, la componente relazionale sta diventando sempre più predominante rispetto a quella di contenuto. Mi riferisco al secondo assioma della comunicazione di Watzlawick, secondo il quale la prima componente determina la seconda, ed è quindi metacomunicazione. I recenti dibattiti sulla guerra in Ucraina ne sono un esempio lampante.

Nel lavoro che si fa in azienda sul miglioramento della qualità della comunicazione interpersonale, per esempio al fine di evitare i conflitti, si insiste moltissimo sull’importanza del canale analogico. Quello del tono, della postura, delle espressioni facciali. È un argomento che mi tocca personalmente, perché ho più volte sperimentato le conseguenze dell’intemperanza, quando subisco un torto. Quando torno a sbagliare mi vengono subito in mente gli insegnamenti dei miei genitori e mi domando quanto mi ci vorrà ancora per imparare.

Tale insistenza consolida però un vecchio crampo mentale: a una richiesta fatta perfettamente sul piano relazionale – col sorriso sulle labbra, gentilmente, chiedendo per cortesia, ringraziando anticipatamente – non è consentito opporre un rifiuto. Chi lo fa, per il fatto stesso di non avere accettato una richiesta fatta in modo impeccabile, è considerato un villano arrogante. La pretesa è, infatti, che la componente relazionale della comunicazione determini quella di contenuto in un senso ben diverso da quello inteso dall’ottimo Watzlawick. Come se il tono e la postura, oltre a modificare il senso di ciò che si dice, avessero il potere di agire sulle implicazioni.

Per esempio. Tizio chiede gentilmente a Caio di poter organizzare una parte del proprio lavoro in modo da gestire un rischio. Caio, altrettanto gentilmente, chiede a Tizio di stare tranquillo, di non preoccuparsi. Tizio insiste, ma Caio, sorridendo, lo ignora. Tizio allora dice no: dichiara apertamente di non essere disponibile a correre quel rischio, che non può accontentarsi di una generica rassicurazione. Allora Caio si mostra mortalmente offeso, perché ritiene che Tizio abbia dimostrato sfiducia nei suoi confronti. L’aspetto di questa storia che, secondo me, più sarebbe piaciuto a Watzlawick, ci rimanda al terzo assioma, quello sulla punteggiatura nella comunicazione. Infatti, Caio potrebbe interpretare l’insistenza di Tizio come la sua incapacità di accettare un rifiuto di accontentarsi di una generica rassicurazione.

In sintesi, i gioco prevede che si dica: “so che vorresti dirmi no, ma io te lo sto chiedendo in modo da rendere evidente che, se tu lo facessi, metteresti a repentaglio il rapporto tra noi”. Poi, se il rifiuto viene opposto ugualmente, occorre mostrarsi profondamente indignati.

Nella “Pragmatica della comunicazione umana”* si può vedere che questo meccanismo era ben noto al Nostro, soprattutto in relazione ai rapporti parentali e a quelli tra coniugi.

Dobbiamo continuare a lavorare su come dire o chiedere qualcosa a un collega, ma dovremmo farlo con altrettanta insistenza anche su come accettare un rifiuto.

*Paul Watzlawick (1978). Pragmatica della comunicazione umana. Astrolabio

Gli italiani e le regole

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https://www.treccani.it/vocabolario/responsabilita/

Molti dei problemi più gravi della nostra Nazione derivano dal rapporto degli italiani con le regole. Come una procedura aziendale, una norma è una decisione codificata, che riflette il senso di una decisione originaria, a cui si attribuisce una valenza positiva in termini generali. Serve per fa sì che, in una circostanza sufficientemente simile a una verificatasi in precedenza, sia possibile agire nel rispetto di un principio che si intende tutelare.

Una norma è una semplificazione che mira ad aumentare l’efficienza, non siamo più costretti a riunire il consiglio degli anziani per decidere cosa è lecito e cosa no. Tuttavia, la norma, per definizione, è generale e astratta e, talvolta, il guadagno in termini di efficienza può avvenire a spese dell’efficacia. Lo vediamo bene in azienda, quando qualcuno, proprio perché si attiene alla procedura, procura un danno grave e poi si difende sostenendo di averlo fatto “scrupolosamente”.

Assai spesso, siamo pronti a considerare le norme dei consigli quando riguardano noi e sono in gioco questioni di sostanza: la decantata “flessibilità” italiana, spesso contrapposta alla fastidiosa “rigidezza” teutonica o scandinava. Paradossalmente, spesso gli stessi individui che si vantano di questa loro “capacità ermeneutica” divengono inflessibili sul rispetto delle norme quando vincolano gli altri e sono in gioco questioni di forma. È così comodo, così autoassolutorio essere rigidi sulle questioni formali per poter essere flessibili su quelle sostanziali!

Penso al disprezzo per le regole che moltissimi concittadini hanno ostentato e continuano a ostentare, con risultati disastrosi, durante la pandemia. Poi oggi vado, dolorante, nella farmacia di Porta Romana, a Firenze, e mi si nega un farmaco perché la prescrizione reca la data del 25 novembre ’29. Provo a far notare al bipede laureato che la formula, che la sua obiezione è di una idiozia sesquipedale, ma è inutile: per lui o la prescrizione risale a prima della Seconda Guerra Mondiale o devo aspettare otto anni per ripresentarmi in farmacia.

Frugo nei miei lontanissimi ricordi di occasionale studente di diritto. A mio avviso, è evidente qual era l’intento di chi ha scritto la norma quando ha specificato che non ci devono essere errori nella prescrizione di un farmaco. È altrettanto evidente che un errore simile non può in alcun modo pregiudicare il principio a fondamento di quella norma.

Qual è allora il vero problema? È una tutta questione di responsabilità, della nostra endemica incapacità di assumerla, sia quando andiamo in un luogo pubblico senza mascherina, sia quando cavilliamo su un errore formale assolutamente ininfluente, come quello che il mio medico, distrattamente, oggi ha fatto.

La fionda digitale

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Nel 1939 Giovanni Mosca fece pubblicare un libro che raccontava la sua esperienza di maestro di scuola elementare nell’Italia tra le due guerre mondiali. Son passati più di 80 anni, ma quel libro, scritto deliziosamente, è pieno di saggezza. Soprattutto mostra, nel difficile ruolo di insegnante, quanto sia fondamentale la conoscenza dei propri allievi, del loro modo di pensare e di giudicare il mondo. Per esempio, nel secondo capitolo del libro, dal titolo “la conquista della 5.a C”, si legge di come un Mosca poco più che ventenne si sia guadagnato la stima e l’ammirazione di quaranta scalmanati sconfiggendo il loro capo – un grintoso Giovannino che di lì a qualche anno sarebbe diventato il Guareschi fido sodale dello stesso Mosca – in una gara di tiro al moscone con la fionda.

Mi è capitato recentemente di parlarne alla conclusione di un seminario a distanza, (ora li chiamano webinar, speriamo che non duri) sulla digitalizzazione nella scuola, organizzato dall’Ente Nazionale per la Trasformazione Digitale e l’Innovazione, in collaborazione con l’Università di Camerino. Il seminario era il secondo di un ciclo di quattro. Si tratta di una preziosa occasione di confronto tra insegnanti e dirigenti scolastici, concepita non per magnificare “le magnifiche sorti e progressive” della rivoluzione digitale, ma soprattutto per ragionare su come far tesoro dell’esperienza che l’emergenza del Covid19 ha costretto anche la scuola a fare.

La scuola non può e non deve rinunciare a essere fondamentalmente un luogo di incontro tra persone impegnate a mettere le fondamenta del futuro. Tuttavia il mondo sta cambiando anche a causa dello sviluppo tecnologico e ostinarsi a volerlo ignorare significa perdere il contatto con una parte importante della realtà, rifiutarsi di impugnare il nuovo tipo di fionda che i ragazzi osano puntar contro di noi quando mostriamo di disprezzare il modo in cui fanno esperienza.

In queste settimane ho avuto l’occasione di collaborare con un liceo artistico romano proprio per dare una mano a uscire dalla situazione di stallo in cui si trovava. Nell’aiutare insegnanti e allievi, ho capito che la lezione di Mosca è stata fin troppo spesso dimenticata. Questa emergenza è una occasione per gli insegnanti per comprendere cosa voglia dire essere un “nativo digitale”, per superare il senso di smarrimento di fronte all’oltremondo che si è aggiunto alla realtà così come la conoscevamo fino agli anni ’80 dello scorso secolo.

Non a caso parlo di oltremondo. Sto consapevolmente saccheggiando l’immaginifico lessico baricchiano di The game. Il libro è del 2018, ma leggerlo adesso mi pare ancora più utile di quanto non lo fosse allora. Per questo ne ho suggerito la lettura agli insegnanti che mi ascoltavano: due libri separati dai più lunghi 80 anni della storia umana, ma che a tratti parlano della stessa cosa. Allora, uscita dalla Grande Guerra, l’Italia dei dialetti iniziava a trasformarsi nella nazione della lingua italiana. Oggi, uscendo dalla pandemia che ci ha costretto momentaneamente a rendere virtuali i nostri contatti, chi come me ha più di 50 anni ha la possibilità di affacciarsi su quella nuova porzione della realtà. Quella parte di cui magistralmente Baricco racconta la genesi e l’evoluzione. Non si tratta di venerarla o di disprezzarla; di affermarne la superiorità o i limiti. Si tratta solo di comprenderla e di capire il modo migliore per porla al servizio dell’uomo.

Ecco la registrazione del mio breve intervento.

La religione della sintesi

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“Al massimo tre slide“: i manager, soprattutto quelli dei piani alti, non hanno più tempo per leggere. Tutto va troppo velocemente perché ci si possa concedere il lusso dell’analisi. Viviamo in un mondo dove domina la religione della sintesi. Se questa continua accelerazione avviene perché consente di conseguire qualche vantaggio, dovemmo domandarci qual è il prezzo di quel vantaggio. Tuttavia, per far ciò serve un minimo di analisi.

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Gami(sti)fication

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La gamification è una pratica nella sua fase embrionale. Infatti, molti di coloro che se ne occupano usano una terminologia fuorviante e confondono gioco e gara, oppure gioco e trastullo. Il motivo è che la progettazione ludica in ambito professionale è ancora in larga parte nelle mani di appassionati di giochi invece che di esperti progettisti.

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Sei semplici regole per schiacciatori

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volley spikerDa omai più di vent’anni circola online la lezione di Julio Velasco sulla cultura degli alibi: quella sugli schiacciatori che devono schiacciare bene palloni alzati male.

Si trattadi una metafora che ha avuto grande successo fin dal suo apparire: è semplice da capire ed è proferita da qualcuno che ha dimostrato di saper ottenere risultati straordinari in un ambito in cui nessuno era mai riuscito prima a ottenerne di appena accettabili.

Tuttavia, si tratta pur sempre di una metafora e ogni metafora va presa con cautela come rappresentazione semplice e vivida della realtà. Velasco viene spesso additato come esempio di leader eccellente. Uno degli strumenti della leadership è da sempre proprio la suggestione metaforica: basta pensare alle parabole evengeliche per rendersene conto. Ogni metafora è una mappa che aiuta ad orientarsi in un territorio molto più ricco e complesso di lei, grazie alla rimozione di alcune parti della realtà che, solo in determinate circostanze, posso essere considerate irrilevanti.

Questa consapevolezza mi porta, ogni volta che avverto la sensazione rassicurante di avere colto il nocciolo di una questione grazie a una suggestione metaforica, a cercare di capire quali sono i suoi limiti, per non dimenticare mai che la mappa non è il territorio.

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